Presentato alla 59esima Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro (festival da sempre attento a nuovi linguaggi e forme espressive) “Non credo in niente” di Alessandro Marzullo è un esordio ultra-indipendente che ha dell’incredibile, un vero fenomeno italiano che si sta facendo strada fra proiezioni organizzate e una campagna di marketing intelligente fatta di poster e gadget vari acquistabili insieme al biglietto. Interamente girato in pellicola (già primo atto di radicalità nell’epoca del digitale) il film è una notevole espressione di un cinema moderno e di rottura, in grado di arrivare alle nuove generazioni attraverso uno stile che, riprendendo l’immaginario di Wong Kar-wai (riferimento visivo immediato), racconta le vite “disgraziate” di quattro giovani romani (Renata Malinconico, Mario Russo, Giuseppe Cristiano e Demetra Bellina) alle prese con ansie generazionali tipiche di qualunque giovane d’oggi. Un viaggio notturno nell’anima di quattro ragazzi alla soglia dei trent’anni che non vogliono rinunciare alle proprie passioni, nonostante il loro progetto di vita stia prendendo una direzione diversa da quella che speravano… Sullo sfondo di una Roma deteriorata e decadente, vediamo una giovane donna dai numerosi talenti artistici che per vivere fa la hostess; un aspirante attore che si rifugia nel sesso occasionale e una coppia di giovani musicisti che per sopravvivere sono costretti a lavorare in nero in un ristorante.
Difficile dare una risposta univoca, di certo in un panorama generalmente asfittico (sommerso da opere anonime sovvenzionate da contributi statali e incentivi fiscali) ci sono autori ormai da tempo affermati, riconoscibili per stile e riconosciuti da premi e festival. Ma c’è, oggi, in Italia un cinema che parli DAVVERO di giovani?
Sempre più il mondo giovanile pare scollato da quello del cinema italiano, come due rette che mai si incontrano realmente. C’è un fenomeno invece fortemente ravvisabile a ogni proiezione di “Non credo in niente”: una foltissima ed entusiasta presenza di giovani. E non soltanto cinefili incalliti ma giovani di ogni tipo e dagli interessi più disparati.
Perché l’opera di Marzullo, pur intessuta in un linguaggio cinematografico estremamente complesso (in cui ruolo centrale ha la “pastosità” dell’immagine in pellicola, artefatto materico che nutre i corpi e le luci inquadrate) è in grado di arrivare realmente a tutti. È capace, insomma, di intercettare quel disagio e quell’alienazione generazionale che tanto caratterizza tutti quelli nati negli anni ’90 e a seguire.
Riflessioni già note in fondo, certo. Simili riflessioni estetiche son già state fatte dalla new wave taiwanese degli anni ’90 (di amanti che si inseguono fra luci al neon, sovrastati da metropoli spersonalizzanti, ricordiamo almeno il bellissimo Rebels of the neon God di Tsai Ming-liang) ma soprattutto da Wong Kar-wai, autore mitologico forse oggi sconosciuto a molti ma vero e proprio oggetto di culto per chi l’ha scoperto e (spesso) amato. La sua estetica, il suo mondo e il suo modo di “fare” il cinema (mostrando frammenti di vita e non narrazioni complesse) trova nell’opera di Marzullo nuova linfa vitale, aggiornandosi all’Italia del post-lockdown e ai giorni nostri. Angeli Perduti e Hong Kong Express sembrano la fonte primaria da cui attingere ma è realmente la capacità di Marzullo di riadattare quell’immaginario ai nostri tempi a elevare la sua opera dall’essere una mera riproposizione.
Centrali poi le musiche (originali di Riccardo Amorese, fra cui spicca “So many Roads” interpretata durante una scena dai toni sfumati ed eterei dalla bravissima Demetra Bellina) e anche qui l’idea è ben precisa: il film è come una melodia scomposta, immagini e musiche si accavallano e si muovono insieme, confuse, interrotte, sparse, narrando quel vagare inquieto che accomuna tutti i 25-30enni di questo paese.